La responsabilità degli amministratori di società di capitali. In particolare, il principio della business judgment rule applicato alle scelte organizzative degli amministratori.
L’art. 2476 c.c. pone una disciplina sintetica della responsabilità degli amministratori verso la società (a responsabilità limitata), i soci ed i terzi. Nonostante ciò, quanto ai presupposti generali della responsabilità ed alla natura delle diverse azioni, sussiste una quasi completa simmetria rispetto alla disciplina prevista per le società azionarie. Il primo comma della richiamata disposizione codicistica si limita ad affermare che gli amministratori sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall’inosservanza dei doveri ad dalla legge costitutivo per l’amministrazione della società: nonostante la mancata riproduzione della formula contenuta nell’art. 2392 c.c., è comunque richiesta una diligenza di carattere professionale, determinata dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze degli amministratori chiamati a guidare la società. In particolare, si ritiene dovuta la diligenza professionale di cui all’art. 1176 comma 2 c.c. di cui il riferimento alla natura dell’incarico (ex art. 2392 c.c.) rappresenta evidente specificazione (così, in giurisprudenza, Trib. Roma, 19 ottobre 2015; Trib. Milano, 28 febbraio 2011).
Inizialmente si specifica come sia noto che all’amministratore di una società non può essere imputato a titolo di responsabilità ex art. 2392 c.c. di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di revoca dell’amministratore, non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società. Ne consegue che il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione, o le modalità e circostanze di tali scelte, ma solo l’omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità (cfr., Cass., 28 aprile 1997, n. 3652). La regola della business judgment rule esclude che si possa far discendere l’eventuale responsabilità degli amministratori (esclusivamente) dall’insuccesso economico delle iniziative imprenditoriali da questi intraprese, spettando il controllo sull’opportunità e sulla convenienza economica delle decisioni esclusivamente ai soci nei confronti del consiglio di amministrazione e a quest’ultimo, come plenum, nei confronti dei delegati, in quanto trattasi di un controllo in forma di potere di indirizzo, di condizionamento e anche di contrapposizione antagonistica, con la revoca dell’amministratore o della delega, non già di sorveglianza e verifica in funzione di eventuali iniziative sul terreno della responsabilità. Tuttavia, il principio della insindacabilità delle scelte di gestione non è assoluto, avendo la giurisprudenza elaborato due ordini di limiti alla sua operatività. La scelta di gestione è insindacabile, in primo luogo, solo se essa è stata legittimamente compiuta (sindacato sul modo in cui la scelta è stata assunta) e, sotto altro aspetto, solo se non è irrazionale (sindacato sulle ragioni per cui la scelta compiuta è stata preferita ad altre).
Esaminata, in via del tutto generale, la tematica della responsabilità degli amministratori di una società a responsabilità limitata ed indagati il significato ed i limiti della regola della business judgment rule, occorre ora esaminare se essa – come detto, «sorta» e sviluppata con riferimento alle scelte imprenditoriali degli amministratori – possa applicarsi alle scelte «organizzative» da essi poste in essere.
Come è noto, infatti, l’art. 2381 c.c. – con una regola che, anche in epoca antecedente all’entrata in vigore (per detta parte) del d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 che ha modificato l’art. 2475 c.c. aggiungendovi un espresso richiamo, si riteneva applicabile anche alle società a responsabilità limitata – pone a carico degli amministratori il dovere di curare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile Ebbene, sebbene debba darsi atto di un orientamento dottrinario che ritiene che non sia possibile traslare i principi che sorreggono la regola sopra evidenziata alle scelte non gestorie, ma organizzative, ritiene il Tribunale che sia condivisibile la conclusione favorevole.
In tale prospettiva, in estrema sintesi, si evidenzia che la funzione organizzativa rientra pur sempre nel più vasto ambito della gestione sociale e che essa deve necessariamente essere esercitata impiegando un insopprimibile margine di libertà, per cui le decisioni relative all’espletamento della stessa vengono incluse tra le decisioni strategiche. In altre parole, la predisposizione di un assetto organizzativo non costituisce l’oggetto di un obbligo a contenuto specifico, ma al contrario, di un obbligo non predeterminato nel suo contenuto, che acquisisce concretezza solo avuto riguardo alla specificità dell’impresa esercitata e del modo cui quella scelta organizzativa viene posta in essere. E va da sé che tale obbligo organizzativo può essere efficacemente assolto guardando non tanto a rigidi parametri normativi (non essendo enucleabile dal codice un modello di assetto utile per tutte le situazioni), quanto ai principi elaborati dalle scienze aziendalistiche ovvero da associazioni di categoria o dai codici di autodisciplina.
Così, come è stato efficacemente affermato, l’esistenza di un ambito discrezionale entro il quale gli amministratori possono compiere le loro scelte aventi carattere organizzativo deriva dal fatto che il legislatore ha utilizzato come criterio di condotta, a cui essi devono attenersi nella configurazione e nella verifica degli assetti societari, la clausola generale dell’adeguatezza e, dunque, una clausola elastica, al pari, della clausola di diligenza dovuta nel realizzare una scelta imprenditoriale.
In definitiva, la scelta organizzativa rimane pur sempre una scelta afferente al merito gestorio, per la quale vale il criterio della insindacabilità e ciò pur sempre nella vigenza dei limiti sopra esposti e, cioè, che la scelta effettuata sia razionale (o ragionevole), non sia ab origine connotata da imprudenza tenuto conto del contesto e sia stata accompagnata dalle verifiche imposte dalla diligenza richiesta dalla natura dell’incarico.
Di seguito la sentenza per intero.